Come ho avuto modo di spiegare nella pagina dedicata alla presentazione dei personaggi, Orlando Sfuriotti era forse l’unico, tra capi e sottocapi, che nei momenti di relativa tranquillità riusciva a dare il giusto valore alle persone meritevoli. Purtroppo questo accadeva molto di rado, perché il suddetto si lasciava trasportare facilmente dall’ira: ed era molto più frequente ritrovarsi sepolti da urla e bestemmie che gratificati per un buon lavoro portato a termine. Tuttavia Sfuriotti nutriva per me un certo rispetto, a differenza di Timento e Trappolini, forse perché capiva l’oggettiva difficoltà del mio compito. Sapeva lavorare, devo ammetterlo, e proprio per questo riusciva a comprendere la profonda differenza esistente tra il dire e il fare.

Questa primordiale forma di rispetto non era però a prova di bomba, e anch’io ebbi modo di provare sulla mia pelle la furia cieca della quale era capace Orlando. Quella mattina ero reduce da un briefing con Trappolini più impegnativo del solito: mi aveva assegnato un progetto in sé non complicatissimo, ma estremamente urgente. In pratica avrei dovuto salire in ufficio, mettermi al computer a testa bassa e portare a termine il compito in trenta, quaranta minuti al massimo. Salvo imprevisti calcolai di poter riuscire nell’impresa, ma avevo fatto i conti senza l’oste: nella fattispecie Sfuriotti, che mi aspettava al varco con un preoccupante plico di fogli in mano.

“Dobbiamo fare subito questo lavoro per il mio amico della Piedebello Calzature”. Cominciai a sudare freddo, si prospettava la solita sovrapposizione di urgenze con strigliata finale: infatti, salvo rari casi, i tre maschi alfa della Stampaben non si confrontavano mai tra loro, e acquisivano lavori e priorità uno all’insaputa dell’altro. A volte addirittura, pur consci di mettere in difficoltà il personale, imponevano le proprie sequenze di lavoro con il solo scopo di sottolineare il predominio territoriale sul resto dell’azienda. Roba da documentario di Discovery Channel, se non fosse che a rimetterci eravamo sempre e soltanto noi dipendenti.

Mi sembrava lecito chiedere un poco di tempo, visto che avevo già in mano un progetto con priorità assoluta: “Dammi una mezz’ora, Orlando, sbrigo questa cosa per Adelmo e poi diamo un’occhiata al tuo lavoro”. Feci un errore di proporzioni colossali: il colorito di Sfuriotti passò rapidamente ad un’accesa tonalità di rosso, mentre le pupille si dilatavano e la vena sul collo assumeva dimensioni da ingegneria idraulica. Ora chiederò un piccolo sforzo di fantasia al lettore, invitandolo ad interpretare questo virgolettato come un boato a cento decibel: “Non me ne frega niente di Adelmo! Voglio questo lavoro pronto tra un quarto d’ora!”

Urlato questo, uscì sbattendo la porta e lasciando il plico sulla mia scrivania. Per fortuna i lavori della Piedebello erano ricorrenti e abbastanza simili tra loro, quindi riuscii a interpretare e sviluppare gli appunti contenuti nella cartella; era comunque un progetto non facile, e dovetti moltiplicare per otto il quarto d’ora imposto da Sfuriotti. Nonostante quest’ultimo avesse fatto un’abbondante colazione con la mia faccia, il resto della mattinata non andò poi troppo male, per gli standard dell’azienda: proprio nel momento in cui chiudevo il file, Sfuriotti entrò in ufficio e mi chiese garbatamente “Come sta andando?”. Evidentemente si era reso conto di aver esagerato, e parlare senza gridare era il suo modo di chiedere scusa.

E Trappolini? Non si fece vivo fino alla mattina dopo, e non ebbe niente da ridire sul fatto che avessi messo il suo lavoro in secondo piano. Mi piace pensare, anche se non posso averne la certezza, che Sfuriotti avesse tenuto in serbo una dose di urli anche per lui. Che, in fondo, era pur sempre un dipendente: e, per quanto arrogante, nulla poteva contro la ferocia incontrollabile di un Orlando con un lavoro urgente da fare.

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