Era la primavera del 1998, e io lavoravo ancora per la tipolito Bellerofont. Non stavo malissimo, ma ero costantemente schiacciato tra i due titolari (padre e figlio), che organizzavano lavori e scadenze ognuno per conto proprio, senza mai sedersi a un tavolo per buttare giù almeno un abbozzo di work planning. Il risultato era ovvio: ognuno dei due esigeva la precedenza e se ne strafregava di quello che faceva l’altro; negli ultimi tempi poi si era aggiunto un ulteriore personaggio, una sorta di procacciatore, anche lui incapace di confrontarsi con gli altri e infettato dal terribile morbo della Subitite. Qualunque lavoro portasse in azienda, doveva essere impaginato e stampato per la sera precedente.

Alla Bellerofont lavoravo con i colleghi grafici Marta e Francesco; io curavo la parte creativa, disegnavo i loghi e impostavo l’immagine coordinata, facevo fotomontaggi e fotoritocchi, quando necessario preparavo disegni tecnici, vignette, illustrazioni, ricostruzioni vettoriali e molto altro. Marta e Francesco erano più portati per pedalare con impaginazioni e battitura testi, e in più davano una mano quando c’era da fustellare, confezionare e imballare grossi ordini. Andavamo d’accordo, ognuno aveva il suo campo d’azione e raramente ci pestavamo i piedi su qualche cosa; restava la grande incognita su chi dovesse essere accontentato per primo tra i capi, e le conseguenti sgridate lasciavano sempre più spesso il segno su Marta. Piangeva praticamente ogni giorno, Francesco ed io – a turno – cercavamo di consolarla e tirarla su di morale, ma la situazione stava diventando sempre più difficile.

Alla Bellerofont, poi, non c’era speranza di crescere e migliorare: non esistevano promozioni, aumenti, incentivi, neanche incoraggiamenti, di nessun tipo. Si entrava come impiegati o operai, e si usciva dopo anni come impiegati o operai. Pur riuscendo a cavarmela, ero comunque insoddisfatto di questa statica tristezza: ero fermamente convinto di meritare di più, e aspettavo l’occasione di poter finalmente dimostrare tutte le mie potenzialità. L’occasione si presentò appunto nella primavera del 1998, quando fui contattato dalla Stampaben: il loro grafico aveva deciso di trasferirsi a Londra, aveva dato le dimissioni e cercavano un sostituto in tempi brevi. Ci fu un primo colloquio informale, ma non trovammo l’accordo su alcuni dettagli riguardanti gli orari di lavoro; mi venne la malsana idea di consigliare loro di contattare Marta, anche lei stufa della Bellerofont e ben felice di andarsene. Non potevo immaginare che questo apparentemente insignificante episodio avrebbe in seguito devastato la mia vita professionale e personale.

Poco tempo dopo la Stampaben si fece viva di nuovo: Marta era stata contattata e assunta, ma oltre a lei serviva anche una figura più orientata alla parte creativa del lavoro. Erano disposti ad accettare le mie richieste riguardanti l’orario, che doveva essere part-time o comunque ridotto: all’epoca scrivevo testi e realizzavo la grafica per una emittente televisiva locale, a titolo gratuito ma con buone prospettive di crescita, e non volevo abbandonare questa potenziale occasione. Organizzammo così un incontro a Cittadella Marittima, al quale erano presenti Timento e Trappolini, con una breve incursione di Sfuriotti che evidentemente aveva altro a cui pensare. Tra un discorso e l’altro spiccò una frase che mi convinse ad accettare; era quello che volevo sentire, ma non potevo sapere che era soltanto un assaggio delle mille bugie che avrei ascoltato da Timento a partire da quel giorno: “La Stampaben sa premiare chi lo merita”.

Credevo di aver trovato il paradiso: preciso, puntuale, metodico e disponibile com’ero (e come sono tuttora), avrei fatto carriera e mi si sarebbero spalancate le porte di un futuro luminoso. E invece ero solo all’inizio di un baratro profondissimo fatto di angherìe, umiliazioni, menzogne e cattiverie gratuite, che mi avrebbero portato alla perdita dell’autostima e alla depressione, per non parlare di un epilogo che neanche un ladro avrebbe meritato: quello del licenziamento senza giusta causa. Vorrei tanto poter tornare a quel giorno, evitare quell’errore e darmi un’altra possibilità. Una seconda chance, che credo di meritare per quello che ho dato e quello che ho fatto nell’arco di tutta la mia storia lavorativa.

Comunque sia, feci la mia scelta sciagurata ed entrai a far parte della Stampaben. E subito la prima sorpresa: nessuno del reparto grafico, fino a quel giorno, si era preso il disturbo di creare un archivio dei lavori eseguiti. Solo fogli volanti, appunti sparsi qua e là senza nessun metodo, tutto affidato alla memoria e a quanto contenuto nei files di produzione: se un cliente portava un campione colore, si preparava l’inchiostro e si stampava, senza conservare il campione né annotare in modo sistematico una corrispondenza Pantone o CMYK. Allo stesso modo non venivano archiviati nominativi, misure, quantità, tipo di carta, lavorazioni accessorie… niente di niente: tutto quello che si aveva a disposizione era il contenuto delle bolle di accompagnamento e delle fatture. Avevo trovato la prima occasione di dimostrare come sapevo lavorare: presi un faldone in segreteria, lo marcai “Davide 1” e iniziai subito ad archiviare tutto il materiale dei lavori, anche piccoli, che nel frattempo stavo cominciando a sviluppare. Poco dopo introdussi anche le schede di lavoro, fino ad allora sconosciute, nelle quali annotavo tutti i dettagli che un giorno sarebbero potuti tornare utili per ristampe dello stesso ordine. Per Trappolini era un’inutile perdita di tempo, ma io sapevo che c’è un unico modo di lavorare: quello giusto.

Le prime settimane furono relativamente tranquille, ma di lì a poco mi sarei ritrovato all’ingresso principale dell’inferno.

Le prime avvisaglie