Racconto postumo.

 
Conobbi Enrico nel 1971 quando, a distanza di pochi mesi, entrammo nell’organico di un centro di ricerche internazionale. Eravamo colleghi; tutti e due facevamo parte del team di operatori che governava una sala macchine, i cosiddetti mainframe (computer), quando questi ultimi occupavano intere stanze. Enrico era ragioniere e aveva da poco seguito un corso di informatica. Il suo diploma non aveva nulla a che fare con il lavoro che facevamo, ma il titolo di ragioniere diventò il suo soprannome. Era di piccola statura, forse poco più alto del Re Vittorio Emanuele III, e di corporatura esile. Imparò in fretta le procedure che dovevamo eseguire. Facemmo molti corsi di aggiornamento, come era uso a quell’epoca: erano i tempi in cui le aziende investivano sul capitale umano. Ricordo Enrico come un uomo buono, sincero, di animo puro, che non avrebbe mai fatto un torto a nessuno: una di quelle persone dalle quali si comprerebbe un’automobile usata ad occhi chiusi. Cosa che peraltro io feci veramente.

Dopo una decina d’anni le nostre strade si separarono: io passai alla programmazione e cominciai ad andare per mare. Facevo parte di un team di supporto agli esperimenti scientifici, responsabile dei sistemi informatici di bordo. Passati un paio di anni si prospettò l’opportunità di far entrare Enrico nel team. Per diverse crociere venne a bordo al nostro seguito per imparare ad usare i sistemi di bordo. Enrico imparava in fretta, ma non prendeva appunti: si fidava della memoria, e dopo qualche tempo era pronto per fare le uscite da solo. Dovevamo essere tecnicamente preparati ad affrontare qualsiasi evenienza: in quegli anni non potevamo contare sul supporto di internet, e le comunicazioni radio erano difficoltose e costosissime. Andò tutto bene per alcune crociere. Ma la sfortuna era dietro l’angolo e quello che vado a raccontare non lo vissi in prima persona, ma mi fu riportato fedelmente da altri colleghi. Se fossi stato presente non sarebbe successo niente.

Durante una crociera cominciarono a manifestarsi una serie di guai: qualcosa, nel sistema, non funzionava come previsto. Non si riusciva a capire cosa stesse succedendo. Enrico pensava di esser il responsabile e ne sentiva il peso: temeva che i malfunzionamenti potessero compromettere l’andamento dell’esperimento o addirittura la fine della campagna. Lavorò giorno e notte, consultando manuali e fumando una montagna di sigarette, ma non ne veniva a capo. Lo stress era forte e nella notte collassò. Svenne in laboratorio. Fu prontamente soccorso e rianimato. Il giorno dopo il capo scienziato e il comandante decisero di sbarcarlo: le sue condizioni di salute erano precarie e non era prudente farlo proseguire. La legge del mare qualche volta è crudele. Fu accompagnato all’ospedale e dopo pochi giorni fu dimesso e rientrò a casa in aereo.

Enrico aveva sentito una responsabilità che non era sua. I guai erano di natura elettrica, uno sfasamento di correnti che interferivano tra di loro. La rete elettrica delle apparecchiature scientifiche avrebbe dovuto essere separata da quella della nave. Ma questo Enrico lo seppe dopo: la sua carriera di tecnico navigante era finita. Ma nessuno a quell’epoca ne fece un dramma, furono tutti molto solidali e trovarono per Enrico un’occupazione meno stressante. Restò comunque sempre nell’ambito informatico. Come accade in tutte le aziende venne la fase della riorganizzazione: eravamo quasi alla fine dell’era dei grandi mainframe. Cominciavano ad apparire computer di dimensioni ridotte, più facilmente trasportabili e più potenti dei mainframe, anche se i personal computer non avevano ancora fatto la loro comparsa.

La riorganizzazione prevedeva la creazione di un nuovo gruppo di specialisti con a capo un giovane ingegnere. Questo giovane capo venne da me a chiedere informazioni su Enrico per sapere come avrebbe potuto impiegarlo. Io conoscevo bene Enrico, sapevo che non brillava di iniziativa personale, ma era un ottimo esecutore, un lavoratore onesto, non era certo uno scansafatiche. Ricordo che gli dissi: “Non ti aspettare iniziative personali, ma se gli prepari un programma di lavoro – anche impegnativo – lui te lo eseguirà senza problemi”. Dopo qualche mese venne da me e mi ringraziò per il suggerimento. Era pienamente soddisfatto del lavoro di Enrico, ma nelle aziende, come si sa, i capi vanno e vengono e sino a quel momento tutti avevano avuto stima e benevolenza nei confronti del mio collega.

Arrivò un nuovo capo dipartimento: uno straniero, nordeuropeo, un tipo sospettoso, arrogante, che non si fidava di nessuno. Qualcuno ne aveva già patito le conseguenze: persone validissime, dirottate a lavori mortificanti. Si era circondato di ruffiani, di quelli che la sanno lunga. Si era instaurato un clima di semi terrore, e nessuno osava ribellarsi. Speravano che col tempo le cose migliorassero: poveri illusi. Fortunatamente io non facevo parte di quel dipartimento e lo contrastavo a muso duro. Era il classico prepotente con i deboli e coniglio con quelli più forti. Era inevitabile che in quel clima Enrico non passasse inosservato, e tantomeno che restasse immune. Forse qualcuno aveva raccontato qualche precedente della sua vita, e per lui cominciarono i guai: gli venivano assegnati compiti per i quali non era preparato, e questo lo induceva a lavorare di notte senza un supporto tecnico.

Enrico non diceva di no, ma faceva presente che avrebbe dovuto avere un minimo di training ed essere affiancato da qualcuno. Era stato buttato in una sala attrezzata per le video conferenze, un impianto tecnicamente avanzato per scopi importanti e delicati. La sala veniva utilizzata dal direttore e dal suo staff per collegarsi con altri istituti dislocati in giro per il mondo: ed era inevitabile che questi meeting si svolgessero anche di notte. Non si sa per quale motivo, ma quel turno spettava sempre a Enrico e tutte le volte c’era sempre qualcosa di che non funzionava. Sembrava quasi che qualcuno sabotasse appositamente le sedute. Questo, per Enrico, era motivo di stress. Più subiva, più veniva vessato, e la pressione generava in lui preoccupanti effetti collaterali: viveva in un costante stato di ansia, smarriva documenti, fumava moltissimo, perdeva persino la cognizione cronologica degli eventi.

Finché venne il giorno del crollo: Enrico svenne come un sasso e sbattè la faccia sul piano della scrivania, rompendosi parecchi denti. Fu sottoposto ad un intervento chirurgico che lo tenne lontano dal lavoro per parecchi mesi. Ma, come si dice, i guai non vengono mai da soli. Enrico, forse mal consigliato, sbagliò l’iter per il rimborso delle spese mediche. A quell’epoca e per contratto non eravamo sotto il servizio sanitario nazionale, quindi interventi e ospedalizzazioni erano completamente a carico nostro; salvo il rimborso, che per un vizio di forma in quel caso diventò quasi impossibile. In breve avrebbe dovuto far fatturare l’intervento e la ospedalizzazione con due fatture diverse. Si trattava di diverse migliaia di euro. Iniziò così lo stress del ricorso, e delle visite mediche che non venivano fatte in loco ma in una capitale dell’Europa del Nord: una cosa indecente.

Enrico subiva tutto senza informare la famiglia; aveva una moglie e tre figli, che adorava e che cercava di tenere al riparo. Non aveva neanche accennato alle angherie subite. Rientrato al lavoro ricominciarono le vessazioni: non era cambiato nulla. Però aveva cominciato a chiedere aiuto. Tuttavia i colleghi non assunsero nessuna iniziativa, erano impauriti dalla reazione del capo. Nel nostro contratto era previsto che una persona che si fosse ammalata gravemente in maniera invalidante poteva essere licenziato e passato a carico del sistema assicurativo. Una specie di invalidità permanente. Ma la commissione medica non era costituita da stupidi. Lo visitarono e stabilirono che era sano e che era sottoposto a forte stress.

Il malvagio capo dipartimento, in combutta con il direttore del personale, lo fece sottoporre ad un’altra visita che ebbe lo stesso risultato: loro volevano che i medici dichiarassero che Enrico era guarito. Questi rispondevano che non potevano dichiararlo guarito, perché non era malato ma affetto da un forte stress; anzi palesavano il sospetto che il soggetto fosse sottoposto a mobbing. Lo convinsero a sottoporsi ad una visita neurologica con liquido di contrasto, che poteva essere invalidante se non addirittura letale. Enrico era effetto dalla nascita dell’anemia mediterranea con ripercussioni sulla tiroide. Infatti dopo quell’esame stette molto male e fu sottoposto ad una cura di disintossicazione che a parere dei medici sarebbe durata tutta la vita.

L’esame e le sue conseguenze tennero Enrico lontano dal posto di lavoro per diverse settimane. Al suo ritorno trovò il computer formattato e i cassetti della scrivania vuoti: evidentemente qualcuno confidò nel fatto che il mio sventurato collega non sarebbe più tornato. Tra i tanti documenti cancellati c’erano anche le mail che lo esortavano a sottoporsi a quell’esame infausto: disattendendo il mio consiglio, Enrico non si premurò di portarne a casa delle copie cartacee, e per questo divenne impossibile ricostruire la sequenza degli eventi per chiamare a risponderne i diretti responsabili. Il supporto dei rappresentanti sindacali fu quasi nullo, e da parte dell’amministrazione non ci fu nessuna azione per fermare il persecutore. Bisognava fare una denuncia suffragata da testimonianze dirette, che nessuno volle fare. Ma tutti sapevano come quelle vessazioni fossero mirate a liberare il suo posto. Secondo il persecutore la via dell’assicurazione doveva essere la soluzione indolore, ma la commissione medica non lo poteva accontentare e fu l’inizio dei guai.

Enrico morì di infarto qualche anno dopo. Ma in molti sapevano chi l’aveva veramente ucciso.

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