Durante la mia permanenza alla Stampaben non smisi mai di darmi da fare per cercare alternative a quel posto di lavoro, che non mi avrebbe mai ricompensato per l’impegno che profondevo senza risparmiarmi: ogni giorno diventava sempre più difficile sopportare bugie, insulti e meschinità di ogni tipo, e tutto volevo fuorché rovinarmi la psiche in un simile inferno. Trovai diversi sbocchi, per la maggior parte piccole collaborazioni, ma mai una vera, nuova occupazione: credetti di andarci vicino quando, nel 2008, fui contattato da un team di motocross che aveva sede a San Rubicondo, a due passi da casa mia. Avevano bisogno di una figura che curasse le pubbliche relazioni, il sito web, i social e la parte cartacea della comunicazione: in poche parole, il sogno della mia vita.

Feci così un’intera settimana di prova: arrivavo a casa poco prima delle 13 dalla Stampaben, solitamente già esaurito dopo l’abituale dose quotidiana di nefandezze, mangiavo di corsa e alle 13,50 mi recavo negli uffici del team. L’ambiente era tranquillo e rilassato, le persone cortesi e sorridenti: l’antitesi di quello che ero avvezzo a vedere ogni mattina. Già mi vedevo intento a disegnare i caschi per i piloti e le livree per le moto, scrivere i comunicati stampa, rifare la veste grafica del sito, rimodernare il logo e inserire le foto delle gare sui social. Il mio primo lavoro fu la realizzazione della brochure di una gara organizzata dal team, completa di programma, cartina e inserzioni dei numerosi sponsor: portai a termine senza problemi il compito, e alla fine della settimana gli esecutivi erano pronti per la stampa.

Venne quindi il momento di parlare delle cose serie: loro piacevano a me ed io piacevo a loro, c’era solo da trattare sulla vile moneta. Ma la proposta che mi fecero, e che per pudore non riporterò qui, fu una cosa a metà tra il ridicolo e l’offensivo: d’accordo che il lavoro era bellissimo e vicino a casa, ma avevo pur sempre un mutuo da pagare e uno stomaco da riempire. In ogni caso, non trovammo un accordo: e questo ci poteva anche stare, d’altra parte ognuno fa i propri interessi e il loro scopo era quello di portarsi in casa un talento a costo (quasi) nullo. Ma quello che mi fece veramente imbufalire fu che non mi venne pagata la settimana di prova: la moglie del titolare, con un sorriso e una stretta di mano, mi fece i complimenti per la brochure e aggiunse “Ti siamo debitori”. Un’altra ventina di ore della mia vita buttate al vento: certo, una pagliuzza in confronto alla montagna di errori di percorso fatti fino a quel momento, ma anche l’ennesima riprova della mediocrità delle persone incontrate lungo il mio cammino.

La stessa mediocrità che ritrovai qualche anno più tardi nella figura di Osvaldo. Si trattava del titolare di una piccola serigrafia, specializzata nella stampa di gadget personalizzati per attività commerciali e alberghi: collaborammo con soddisfazione reciproca per diversi mesi, col limite quantitativo imposto dai voucher di allora, e grazie alle mie capacità grafiche i suoi volumi di vendita aumentarono in modo non trascurabile. Insieme alle vendite crebbe anche la necessità di sviluppare un numero sempre maggiore di progetti, e fu quasi naturale pensare alla mia assunzione nell’organico dell’azienda. Lasciai a lui la prima mossa, per vedere quale fosse il margine di trattativa: ormai sapeva benissimo come lavoravo e cosa potesse aspettarsi da me, quindi le incognite erano veramente ridotte all’osso. E la sua proposta fu questa: “Vieni a lavorare in ditta per tre mesi senza paga, poi alla fine dei tre mesi vediamo come va”.

La serigrafia si trovava a parecchi chilometri da casa mia, quindi paradossalmente – secondo la sua proposta delirante – avrei dovuto pagare per lavorare: diciamo dieci euro di benzina al giorno per sessanta giorni lavorativi. Un bel mattone da seicento euro da sborsare anticipatamente: peraltro senza la certezza matematica di essere effettivamente assunto, perché quel “Vediamo come va” lasciava il campo aperto a qualsiasi epilogo. Mi sembra inutile aggiungere che dovetti declinare la generosa offerta, e continuare a lavorare con i soliti voucher: ovviamente con una produttività molto inferiore a quella di cui Osvaldo avrebbe avuto bisogno. Ancora una volta mi sentii trasformato in una striscia di carta moschicida attiracialtroni, ancora una volta sminuito ed umiliato da una proposta al di sotto dei limiti della decenza.

La teoria della carta moschicida: seconda parte
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