Nell’estate del 2014, dopo l’inaspettato licenziamento dalla Stampaben, entrai in una dimensione parallela fatta di indifferenza e mancanza di empatia. Dopo trent’anni ininterrotti di lavoro, e l’assoluta certezza che il mio impegno mi avrebbe permesso di non perderlo mai, mi ritrovai disoccupato senza quasi rendermene conto. E questo nel peggior momento di sempre per l’economia italiana, per giunta all’età meno opportuna per ritrovarsi in mezzo alla strada: troppo giovane per poter pensare alla pensione, troppo vecchio per sperare di essere assunto altrove. Feci subito tutti i passi necessari per ottenere l’indennità di disoccupazione, che fortunatamente mi fu riconosciuta senza troppi intoppi burocratici; riuscii anche ad ottenere tutto il dovuto dalla Stampaben (trattamento di fine rapporto, ferie arretrate e quant’altro), quindi iniziai a dedicarmi in modo relativamente sereno alla tappa successiva: ricostruirmi una vita.

Ero sicuro che avrei trovato senza difficoltà un sostegno psicologico: così come esistono gruppi di ascolto per alcolisti e tossicodipendenti, davo per scontato che ci fosse qualcosa di simile per chi si trovava ad affrontare il dramma della perdita del lavoro. Niente di tutto questo; almeno, non nella mia zona. Ci rimasi male, perché in certi frangenti la prima cosa da fare è parlare del proprio problema con qualcuno che possa capirlo: e constatare l’assenza di strutture in grado di fornire questo aiuto di base mi fece sentire improvvisamente solo di fronte al precipizio. Provai quindi a rivolgermi al mio medico di base: lui avrebbe saputo indirizzarmi nella giusta direzione. Come prima cosa mi fece fare la procedura necessaria per ottenere l’esenzione ticket prevista per i disoccupati: mai avrei immaginato che un’operazione così semplice costasse tanto, in termini di vergogna e senso di impotenza.

Successivamente il medico mi prescrisse una visita presso un vicino centro di salute mentale: il primo approccio fu positivo, perché ebbi a che fare con un bravissimo e umanissimo infermiere per il colloquio preliminare. Ascoltò la mia storia e la prese a cuore, e nel compilare la scheda anamnesica trovò parole di conforto alla mia sfortunata vicenda. Se questo è l’infermiere – mi dissi – lo specialista sarà ancora meglio. Qualche giorno dopo, invece, mi trovai al cospetto di un giovane dottorino svogliato, al quale non interessava minimamente il mio vissuto. Era uno psichiatra, non uno psicologo, e anziché ascoltare e valutare le cause del problema ritenne sufficiente trattarne i sintomi con le solite benzodiazepine: esattamente quello di cui non avevo bisogno. A me serviva parlare, sfogarmi, confrontarmi con qualcuno che potesse capire, o anche solo essere indirizzato verso strutture capaci di fornire un sostegno umano. Non volevo farmaci, mi sembrava un controsenso cercare di curare un male dell’anima alla stregua di un’infezione o di una cardiopatia.

Misi la prescrizione in un cassetto e continuai la mia disperata ricerca, ma non ci fu nulla da fare: niente consultori, niente gruppi di ascolto, niente psicologi se non a carissimo prezzo. Tentai anche di mettermi in contatto con uno di quei centri pubblicizzati in televisione, quelli che sostengono che “la prima cosa da fare è parlare”: su almeno venti tentativi ottenni altrettante risposte registrate che invitavano a riprovare più tardi. La mia frustrazione cominciò ad essere sempre più pesante, finché arrivò la vera disperazione in seguito al termine del sussidio di disoccupazione: i cento e più curriculum inviati erano rimasti senza risposta, le poche proposte ricevute erano al limite dell’offensivo, e mi ritrovai improvvisamente a reddito zero. Cominciai a non dormire più e a fare pensieri insani, così decisi di tirare fuori la ricetta dal cassetto e di iniziare la terapia farmacologica.

Un palliativo, niente di più: continuavo ad avere fame di dialogo e di umanità. Non potevo parlare con la mia compagna né con i miei familiari, tutti già sommersi da gravi problemi di varia natura. Dopo un po’ decisi di tornare dal mio medico di base, nella speranza che nel frattempo il perdurare della crisi avesse dato vita a qualche nuova iniziativa di aiuto: mi rimandò allo stesso centro di salute mentale, specificando a chiare lettere come la natura della visita dovesse essere psicologica, e non psichiatrica. Quando mi presentai all’accettazione, praticamente mi risero in faccia: “Ma dove vive il suo medico? Qui non esiste niente del genere! Al massimo posso prenotarle un incontro con lo stesso dottore dell’altra volta”. Per sentirmi ancora una volta trascurato e inascoltato? No, grazie, la mia autostima non ha bisogno di ulteriori mazzate. E al mio corpo non servono altre compresse da ingerire.

“Però, se vuole” continuò l’addetta all’accettazione “posso consigliarle una mia amica psicologa brava ed economica: chiede solo trenta euro l’ora”. Come sempre accade in Italia, per stare bene bisogna pagare: anche se hai già versato allo Stato sostanziosi contributi per oltre trent’anni. Al momento in cui scrivo sono già passati più di due anni dall’evento che ha distrutto la mia vita: e c’è solo una strada che ancora non ho tentato, quella della fede. Ma, purtroppo per me, la fede è un’opzione già sfumata da tempo. Cerco di essere una brava persona, mi ingegno per aiutare chi posso con il poco che mi è rimasto, provo a donare un sorriso a chi ne ha bisogno: ma ogni volta che tento di fare un’azione buona vengo punito con nuove sfortune che si sommano a quelle già esistenti. Per quello che ho visto nella mia vita, e per quello che sto vedendo, mi spiace doverlo dire: dio non esiste.

La teoria della carta moschicida: terza parte