Alla Stampaben accadeva spesso, se non giornalmente, di buttare letteralmente dalla finestra ore e ore di lavoro, a volte anche intere giornate. Capi e capetti avevano la malsana abitudine di far preparare allo studio grafico bozze avanzate, praticamente quasi esecutive, senza prima far firmare al cliente nessun contratto e nessun documento a tutela dei diritti di riproduzione. In questo modo molti uscivano dall’azienda con il loro bel progetto gratuito sottobraccio, e la conseguente possibilità di portarlo altrove per richiedere altri preventivi o – nella peggiore delle ipotesi – farlo copiare di sana pianta dalla concorrenza. Mi capitò più volte di vedere in circolazione materiale stampato con la riproduzione pedissequa di un mio progetto grafico, ma recante in un angolo il logo della nostra acerrima nemica Tiporapida.

Mi sembra quasi superfluo aggiungere come il sovrano indiscusso dei lavori regalati fosse il solito Trappolini: essendo un dipendente non pagava certo di tasca sua, ma in virtù di un oscuro beneplacito superiore poteva disporre in modo illimitato delle risorse umane e materiali dell’azienda. La sua generosità non si fermava alle bozze preliminari: aveva preso il vizio di omaggiare i clienti con la fornitura gratuita degli esecutivi dei loghi che creavo. Non che fosse un lavoro enorme, ma tra l’esportazione dei files in almeno quattro formati grafici, il ricontrollo in importazione, la prova di stampa, l’invio per E-mail e la scrittura del CD se ne andava almeno una mezz’oretta.

Tentai più volte di suggerire l’approntamento di un vero reparto creativo, e di cominciare a richiedere giusti compensi per quanto fornito. D’altra parte la Stampaben regalava opere d’ingegno che qualsiasi studio di design avrebbe venduto a trecento, cinquecento, mille euro. Inoltre, grazie al mio talento, avremmo potuto realizzare siti web, portali e-commerce, prototipi di packaging 3D, servizi fotografici still-life, animazioni e tante altre attività parallele alla classica stampa tipografica. Niente da fare. La risposta ai miei suggerimenti era più o meno sempre la stessa: “tu fai quello che ti si dice e non preoccuparti, che noi sappiamo fare i nostri conti”.

La triste realtà era che tra lavori regalati, bozze a vuoto, generose donazioni ad amici e parenti e l’uso smodato delle risorse aziendali per fini personali, si lavorava a incasso zero per almeno la metà del tempo. La cosa più irritante era che questo stato di cose andava benissimo alla dirigenza della Stampaben, almeno finché gli sprechi erano firmati Trappolini. Ma se uno qualsiasi degli altri dipendenti si azzardava ad impiegare trenta minuti dove ne erano previsti venti, oppure a indugiare sei minuti in pausa caffè anziché cinque, erano dolori. Io rinunciai persino alla pausa obbligatoria per legge per gli operatori al computer: Timento e Sfuriotti non concepivano che un lavoro “leggero” come stare davanti a un monitor richiedesse del riposo, e preferivo evitare di dovermi giustificare, e dover spiegare ogni volta quanto fosse importante la pausa per scongiurare problemi alla vista o al tunnel carpale.

Anche Timento e Sfuriotti non scherzavano, in fatto di lavoro buttato al vento. Il primo con i suoi tornei di golf e tutto il corollario di locandine, brochures, manifesti, inviti e programmi che dovevamo progettare e stampare a introito zero (come rivelatomi da Pierluigi, il ragioniere). Per Sfuriotti il copione era più o meno lo stesso, con la differenza che la disciplina sportiva era il tiro a volo: ormai sapevo tutto di skeet, trap, double trap, fucili, fosse, macchine lanciatrici e piattelli. Anche Eva, figlia di Sfuriotti, aveva il suo evento da pubblicizzare: in questo caso si trattava di una specie di concerto collettivo di gruppi emergenti che si teneva a fine estate. L’aspetto positivo era che fosse – appunto – una singola manifestazione annuale; quello negativo era che ogni anno la Sfuriottina diventava sempre più esigente in fatto di quantità di materiale da preparare.

Oltre alla passione per il golf, Fausto Timento amava anche avventurarsi in iniziative bizzarre, quasi sempre dall’esito fallimentare. Come quando tentò di creare una specie di network tra tipografie e serigrafie medio-piccole, a livello nazionale, in modo da poter affrontare gare d’appalto importanti e commesse di un certo peso. Idea in sé non malefica, ma messa in atto con la sufficienza e la mancanza di metodo tipica del Timento: non si capiva chi dovesse comandare e chi dovesse prendere decisioni, la comunicazione era frammentaria, e l’arte italica dello scaricabarile trovava la sua più alta espressione ogni volta che qualcosa non andava per il verso giusto. Ovvero molto spesso.

A me, onestamente, non interessava sapere se il lavoro che stavo facendo era per un cliente pagante o meno. Nè mi preoccupava il fatto di vedere così tante risorse sprecate: in fondo il mio stipendio non cambiava di un centesimo, ed ero ormai stanco di proporre innovazioni senza ricevere ascolto. Fino alla fine degli anni dieci, quando ancora le vacche erano grasse, lo sciagurato modo di lavorare della Stampaben non le impedì comunque di prosperare e di arricchire a dismisura i titolari: i nodi vennero al pettine con l’arrivo della Grande Crisi, ma nessuno del quadrumvirato si sognò mai di ammettere le proprie responsabilità nella cattiva gestione del potenziale umano e strumentale operata fino a quel giorno. Quando le cose cominciarono ad andare male, la colpa fu fatta ricadere sui dipendenti: che erano troppo numerosi, troppo lenti, troppo pagati (!) e non all’altezza delle aspettative. E negli anni successivi furono infatti i dipendenti a farne le spese: qualcuno, come il sottoscritto, anche con il posto di lavoro stesso: ma di questo parlerò ampiamente nei prossimi articoli.

Non più di mezz'ora
Un altro lo farebbe in dieci minuti