Ammalarsi, alla Stampaben, era fuori discussione. Ovviamente i dirigenti e i loro lacchè non potevano impedire a virus e batteri di fare il loro sporco lavoro, ma sapevano usare sottili strategie per far pesare al dipendente la sua assenza, una volta guarito dalla malattia e tornato al suo posto. I tempi di consegna di un lavoro non erano stati rispettati? “Eh, certo che se non fossi stato a casa tre giorni, ora non avremmo questo problema”. Un cliente abituato a trattare i progetti con uno dei grafici era venuto in azienda, e non aveva trovato la persona di riferimento? “Va a finire che per colpa tua perdiamo il cliente”. C’era da fare un fotomontaggio ed era stato necessario commissionarlo esternamente? “Quasi quasi dovresti pagarla tu, la fattura!”

Intimoriti dalle rappresaglie psicologiche, noi dipendenti cercavamo di ammalarci il meno possibile, o quantomeno di limitare al massimo i giorni di assenza; posso vantarmi di aver fatto, in sedici anni di lavoro, sì e no una decina di giorni di malattia. Nello specifico, tre di quelle influenze che non avrebbero dato alternativa al letto neppure a Chuck Norris. Per non lasciare indietro nessun progetto, andai al lavoro con trentotto e mezzo di febbre, con la schiena bloccata dalla lombosciatalgia, con perdite ematiche dall’intestino e con mal di denti lancinanti: stupido, me ne rendo conto, ma avrei fatto qualsiasi cosa pur di evitare le vendette trasversali architettate da Trappolini & C.

I disturbi dei quali soffrivo più spesso erano però altri, ed erano strettamente correlati al mio compito. Non potendo fare – in sostanza – i dieci minuti di riposo ogni due ore obbligatori per legge, mi ritrovavo spesso con problemi agli occhi e soprattutto al tunnel carpale; riuscii in parte ad arginare il primo disturbo iniziando ad indossare gli occhiali al posto delle lenti a contatto; ma per la mano non c’era niente da fare, se non imbottirsi di antidolorifici e antinfiammatori. Provai polsini, fasciature e tutori, tentai anche di modificare il mio modo di manovrare il mouse, ma con scarsi risultati. Spesso lavoravo stringendo i denti per il dolore, ma continuavo: se fossi stato sorpreso a riposare il polso avrei subìto l’ennesima sgridata, perché non era concepibile che un lavoro “leggero” come quello del grafico richiedesse interruzioni di qualsiasi tipo.

Anche con ferie e permessi le cose non andavano meglio. L’azienda chiudeva tre settimane in agosto e una in dicembre; non era possibile svincolarsi da questa regola, e infatti in sedici anni di lavoro ho potuto godere solo di una settimana di ferie decisa da me: l’ultima, subito prima di restare a casa in seguito al licenziamento. I permessi andavano centellinati con grande attenzione, e richiesti solo in caso di vita o di morte: in realtà erano permessi per modo di dire perché poi, con l’uso di strategie colpevolizzanti simili a quelle viste per la malattia, si veniva costretti a recuperare il tempo perduto. In compenso Eva Sfuriotti aveva facoltà di lasciare il lavoro tutte le settimane, nella mattinata del martedì, per recarsi al mercato rionale di Cittadella Marittima. Come sempre, due pesi e due misure: ma questa è la dura regola del nepotismo, principale filosofia ispiratrice della Stampaben di Sfuriotti e Timento.

Tutto è relativo
Il dono dell'ubiquità