Dopo un decennio abbondante di lavoro, ormai conoscevo alla perfezione i meccanismi mentali dei miei superiori; e sapevo bene cosa fare per ottenere, se non la loro approvazione, almeno un tacito consenso. Trappolini, ad esempio, era convinto che il logo di un ristorante dovesse sempre essere per forza marrone, e che un albergo non potesse prescindere da una grafica fatta di svolazzi neoclassici. Una vera frustrazione per le mie capacità e la mia fantasia: il mio lavoro si era ridotto non tanto a creare elementi di design originali e accattivanti, ma a cercare sempre e soltanto di assecondare le aspettative (banali e ormai trite) di capi e capetti.

Onestamente ero stanco di questo stato di cose, potevo e volevo fare molto di più. Come ho accennato in un altro articolo, avrei voluto dar vita ad un vero ufficio di progettazione e ricerca, ma le mie velleità creative si scontravano sempre con la volontà della dirigenza di mantenere un ripetitivo, immutabile “status quo”. D’altra parte sarebbe stato troppo pericoloso, per loro, concedere troppa libertà d’azione e troppa iniziativa a un singolo dipendente; una scelta simile avrebbe creato un precedente, e sarebbe stata contraria al motto ispiratore che da sempre regolava i rapporti tra i titolari e le maestranze della Stampaben: “Tutti sono utili, nessuno è indispensabile”.

Ogni tanto, tuttavia, pur sapendo di rischiare cercavo di mettere un po’ di pepe nelle mie creazioni: tocchi di colore, piccoli giochi di legatura tra le lettere, elementi grafici originali e inaspettati. Sempre cose minime, perché uscire dai binari preimpostati per legge poteva significare una sfuriata epocale: i titolari e Trappolini, del resto, erano sempre alla ricerca di qualsiasi appiglio per dare libero sfogo alla loro aggressività, e non bisognava invitarli a nozze con palesi violazioni delle loro regole. Ma una volta, probabilmente in preda ad un attacco di autolesionismo, decisi di fare di testa mia: e ovviamente pagai a caro prezzo la gravissima insubordinazione.

Ufficio di Trappolini, abituale briefing mattutino. Il lavoro da fare consisteva nella progettazione dell’immagine coordinata di un Hotel di Cittadella Marittima: e se fossi stato un poco più furbo avrei usato i soliti stilemi che – per quanto obsoleti – avrebbero soddisfatto il mio collega. Invece decisi, per una volta, di non usare un handwriting e di fare un esperimento con un font creato da me, in stile art decò: niente di troppo ardito, ma almeno era un tentativo di fare qualcosa di diverso dal solito. Mi presentai da Trappolini col risultato della mia fatica, e capii di aver commesso un errore nel momento stesso in cui posò l’occhio sul foglio: credo che in qualsiasi azienda del mondo, in un frangente simile, ci si possa limitare a dire “non è quello che mi aspettavo” oppure “va bene, ma facciamo anche una proposta alternativa”.

Ma la Stampaben non era un’azienda normale. E Trappolini ne era la degna personificazione: “Questo lavoro fa schifo! Ma cosa ti è saltato in testa? Io mi vergogno a presentare al cliente una bruttura simile! Chi ti ha detto di usare questo carattere?” e via infamando per dieci minuti buoni, ovviamente avvalendosi di termini molto meno edulcorati di quelli che usato io. In questi casi, ogni tentativo di autodifesa era pressoché inutile: serviva solo a far aumentare, alla stregua di un potenziometro, il volume degli insulti. Tentai di far valere le mie ragioni, sottolineando il fatto che nella peggiore delle ipotesi avrei comunque rifatto tutto in poco tempo; e che in ogni caso cambiare, ogni tanto, non ci avrebbe poi fatto così male. Ma ogni parola era inutile, quando ormai la furia si era liberata. Tornai nel mio studio e riprogettai il logo usando il solito corsivo inglese, con il quale avevamo ormai tappezzato l’intera Cittadella Marittima.

Il dono dell'ubiquità
L'inizio della fine