La perversa dedizione di Trappolini per il mobbing si spingeva spesso oltre i confini delle questioni puramente lavorative: pur di infliggere continue sofferenze ai dipendenti della Stampaben, non smetteva mai di cercare nuove forme di persecuzione. Una delle più odiose, oltre alla strigliata a sorpresa vista nell’articolo precedente, era la pratica del body shaming (vergogna del corpo): e dal momento che io ero la vittima designata di Trappolini, dovetti subire anche questo tipo di tormento.

Il periodo era quello delle “scatolette” (vedi l’articolo relativo), durante il quale fui costretto a fare orario pieno e continuato, e a mangiare panini e scatolette davanti al computer senza ricevere buoni pasto né altre soluzioni per poter pranzare in modo dignitoso. Nello stesso periodo rimasi anche appiedato, e per lunghi mesi dovetti condividere con la mia compagna la sua automobile: questo mi costrinse ad abbandonare la palestra, e l’equazione stress + mangiare male + lavoro sedentario + stop all’attività fisica condusse ad un evidente peggioramento del mio stato di forma. Non che sia mai stato un Adone, ma nei limiti imposti dalla genetica avevo sempre cercato di curarmi il meglio possibile.

Una mattina Trappolini mi convocò nel suo ufficio, come del resto accadeva praticamente ogni giorno; non feci in tempo ad entrare e sedermi, che il malvagio collega iniziò il suo delirante monologo: “Ma ti sei visto allo specchio? Ma non ti sei accorto di quanto sei ingrassato? Guarda che pancia! Ma non ti vergogni neanche un po’?” e via insultando senza soluzione di continuità. Probabilmente Trappolini stava dimenticando che quasi tutti i miei problemi, pancia compresa, altro non erano che la diretta conseguenza delle sue imposizioni. All’inizio fui quasi divertito da una tale dimostrazione di bassezza morale, ma quando la misura fu colma lo interruppi e uscii dall’ufficio dicendo “quando avrai voglia di parlare di lavoro e non del mio grasso, chiamami”.

Quando qualcuno cercava di ribellarsi alle sue vessazioni, solitamente Trappolini replicava “ricorda che posso farti licenziare quando voglio”, facendosi forte del misterioso beneplacito superiore che lo rendeva intoccabile e onnipotente, almeno all’interno dei muri dell’azienda. Quella volta si risparmiò la minaccia: chissà, forse si era reso conto di aver passato il segno. Sebbene io fossi – come detto – la vittima preferita degli attacchi di Trappolini, egli non disdegnava di infliggere il body shaming anche ad altri dipendenti della Stampaben: una volta i denti di Federico, un’altra volta il sedere di Stefania, poi la calvizie di Alessandro, la bassa statura di Massimo e l’alito di Nicola. Come ho già scritto in altri articoli, il personaggio in questione sapeva colpire con metodo e precisione, traendo tanto più godimento quanto maggiore era il dolore cagionato.

Ma la sua cattiveria poteva anche andare oltre: Trappolini era ben al corrente del fatto che avrei voluto un figlio, e che al contempo la mia disastrosa situazione economica non me lo avrebbe permesso per chissà quanti anni ancora. So di sbagliare, so che “dove si mangia in due si mangia anche in tre”, so anche che secondo il pensiero comune i figli bisogna farli e basta, poi dio vede e provvede. Ma come diceva Fabrizio De André non volevo creare ulteriore dolore, mettendo al mondo un figlio che non sarei mai riuscito a crescere in modo dignitoso: avevo troppo sofferto la povertà della mia famiglia, da piccolo, e non volevo che un innocente fosse vittima della stessa sorte. Ebbene, un giorno il mio collega riuscì a umiliarmi anche su questo delicato argomento, e mi accolse nel suo ufficio esclamando “Eccolo qua, quello che non vuole fare figli! Cosa aspetti, di andare in andropausa?”

Del resto lui non aveva problemi: villetta unifamiliare ereditata, automobile e cellulare forniti dalla ditta, cospicuo stipendio base e altrettanto cospicuo arrotondamento con attività extra aziendali (buona parte delle quali portate avanti nell’orario di lavoro). Come ripeto per l’ennesima volta, non sono invidioso di chi è stato baciato dalla fortuna; ma vorrei tanto sapere perché costoro non si limitino a godere dei loro privilegi, senza danneggiare la psiche e l’autostima di chi non ha avuto lo stesso destino.

La battaglia delle schede di lavoro
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