Di tutti gli anni della mia vita, forse il 1988 è stato il peggiore: avevo da poco dato vita a Grafite, il mio studio di design, e le disgrazie erano già piovute copiose. Prima il dirottamento dei contributi a fondo perduto per le giovani imprese, che costrinse me e il mio socio a coprire un fido capestro, versando alla banca interessi al limite dell’usura; poi i disaccordi e lo scioglimento della società, per finire con la sonora batosta descritta nel capitolo “la grande truffa“. Bel lungi dall’essere stanca, la sfortuna mi prese nuovamente di mira mentre ancora stavo barcollando per l’ultimo episodio. In quel periodo lavoravo parecchio per la Bellerofont, la tipografia della quale ero dipendente prima di gettarmi nel folle tentativo di aprire un’attività in proprio; e ogni mese emettevo la regolare fattura con l’importo complessivo sotto la voce “elaborazioni grafiche”.

Un giorno di ottobre del 1988 ricevetti la visita di una funzionaria dell’Ispettorato del Lavoro. Ero del tutto sereno, fino a quel momento avevo cercato di fare tutto secondo le regole: e se proprio avessi sbagliato qualcosa, l’avrei comunque fatto in buona fede. Oppure a causa dalla terrificante burocrazia dell’epoca, che ancora lontana dall’avvento del computer era persino più complessa ed elefantiaca di quanto non lo sia oggi. Mi venne contestata un’eccessiva quantità di lavoro prodotta per un’unica azienda: io caddi dalle nuvole, perché dedicavo alla Bellerofont un quindici, massimo venti per cento del mio tempo complessivo; e di certo lavoravo per loro molto meno di certe aziende satellite di industrie più grandi, praticamente succursali di queste ultime.

In netto contrasto col suo aspetto severo, la funzionaria si rivelò una persona cortese ed affabile: capì la mia situazione semidisastrata e non infierì con multe o sanzioni. Mi fece comunque un verbale, una specie di ammonizione, e mi consigliò di non fare più fatture complessive generiche ma suddivise voce per voce: quindi non più “elaborazioni grafiche” ma “creazione logo Tizio”, “impaginazione brochure Caio” e così via. Alla fine me la cavai con poco, ma i giorni e le notti che precedettero questo epilogo, per uno come me da sempre ansioso e portato alla somatizzazione, furono terribili: non dormii per una settimana, e mi ritrovai a mangiare pochissimo e a lavorare male. Questa mia caratteristica negativa ebbe un peso enorme in tutta la mia esperienza lavorativa, e ancora oggi non posso dire di essermene liberato: anzi, tutti gli episodi di mobbing, tutte le vessazioni e tutti gli insulti subìti negli anni successivi ad un certo punto mi avrebbero portato ad uno stato di prostrazione psicofisica, culminata con l’episodio dell’ingiusto licenziamento dalla Stampaben.

Tornando al mio annus horribilis, sbagliavo di grosso credendo di aver pagato pegno alla dea sbendata della Sfiga: su consiglio del mio commercialista avevo aderito al cosiddetto “Concordato Fiscale” di quell’anno, una sorta di costoso ombrello che mi avrebbe messo al riparo da controlli inaspettati. In teoria non avevo niente da temere, avevo adempiuto a tutte le incombenze fiscali possibili: ma visto l’andazzo di quell’anno preferii investire un po’ di denaro in una piccola oasi di tranquillità. Ebbene, neanche questo mi evitò l’ennesima batosta psicologica: la GdF operò un numero impressionante di verifiche a sorteggio, e la mia piccola attività – ovviamente – venne inclusa nella lista. Quando il commercialista ed io ci recammo in caserma con tutti i faldoni al seguito, lui sudava freddo per il terrore: e se aveva paura lui, figurarsi io. Passammo un’ora bruttissima, ma alla fine risultò tutto a posto: tutto tranne il mio stomaco, che ormai devastato dalla tensione continua e dall’imperversare della malasorte stava cominciando ad issare la bandiera bianca della resa incondizionata.

Mancava solo una cosa, per rendere davvero indimenticabile quell’anno: una cocente delusione amorosa. E a quella ci pensò la mia compagna di allora, la quale – forse stanca di una vita fatta di rinunce e sacrifici – pensò bene di lasciarmi proprio nel momento peggiore del mio anno più difficile. La incontrai nuovamente dopo circa un paio di mesi: non aveva perso tempo ed aveva iniziato una relazione con un giovanotto munito di Mercedes e di un portafoglio assai voluminoso. Venne fuori che il benessere del mio sostituto era dovuto all’attività non esattamente lecita di corriere della droga tra l’Olanda e l’Italia, ma la replica della mia ex fu di quelle difficili da controbattere: “Non mi importa da dove vengono, i soldi sono soldi. E poi tu non avresti mai il coraggio di fare una cosa del genere: lui invece sì che è un vero uomo!”. Poco tempo dopo diventò un vero uomo con davanti delle sbarre, ma questa è un’altra storia.

La grande truffa
La teoria della carta moschicida: prima parte